Il martirio di questo santo è ammirabile, e si trova celebrato dagli scrittori così dell'oriente come dell'occidente, secondo scrive il p. Orsi, citando Eusebio, s. Gio. Grisostomo e Prudenzio ne' luoghi ove ne parlano. S. Romano fu siro, e nacque da genitori cristiani e nobili. Applicato che fu da giovane agli studj, vi fece grandi progressi, poiché era di bell'ingegno; ma il profitto più grande fu quello che fece nella scienza de' santi, co' santi costumi che coltivava e collo zelo che avea per la religione. Quando cominciò la persecuzione di Diocleziano egli si trovava già diacono nella chiesa di Cesarea: onde per confortare i fedeli a soffrir quella gran tribolazione, si pose a scorrere per tutte le case. Il suo vescovo lo mandò ad Antiochia per alcuni affari premurosi: giunto colà Romano nell'anno 303., trovò che stavansi abbattendo le chiese per ordine degli imperatori. Ciò l'afflisse molto, ma gli fu poi di maggior dolore il veder la caduta di molti cristiani che si presentavano per sacrificare agl'idoli, spaventati dalle pene minacciate dai giudici. Onde accesso dal suo zelo, e non facendo conto del suo pericolo, entrò nella turba di quegli apostati e gridò: Ah fratelli miei, che fate? Voi abbandonate il vero Dio, il vostro Creatore, il vostro Redentore, per darvi a' demonj vostri nemici? Voi offerite l'incenso agli dei di bronzo, di pietra o di legno; e volete adorare come dei coloro che sono stati i più scellerati degli uomini?

Con questo discorso fece molto, poiché non solo ritenne coloro che stavano per cadere, e confermò i costanti, ma sollevò coloro che erano avviliti, e li dispose a resistere a tutti gl'insulti de' nemici. Narra il p. Orsi da Prudenzio che il prefetto del pretorio chiamato Asclepiade avendo mandati soldati alla chiesa ad offerir vittime agli idoli sopra del santo altare, ordinando che dopo ciò fosse mandata la chiesa in ruina, il santo si oppose all'empio sacrilegio; e poi disse che se voleano scannare una vittima, egli era pronto ad offerire al suo Dio il sacrificio della sua vita. Asclepiade avendo inteso ciò, diede ordine che Romano fosse arrestato. All'avviso poteva il santo fuggire, ma non volle, anzi andò egli incontro ai soldati; e presentato al tribunale, confessò di esser cristiano, e ch'egli avea distolti i fedeli di ubbidire all'editto, perché, diceva, l'editto era empio. Ben prevedo, soggiunse, che questa mia confessione mi soggetta ai tormenti; ma spero di soffrirli con costanza per amore del mio Dio, poiché non ho commesso alcun delitto.

Il prefetto ordinò che fosse steso sull'eculeo e lacerato con ferri; ma essendogli stato detto che il santo era nobile, mutò il supplicio in farlo battere in sua presenza per lungo tempo con flagelli armati di piombo. Vedremo, disse il prefetto, se parlerai con tanta insolenza in mezzo a' supplicj. Rispose il santo martire: A Dio non piaccia ch'io sia mai insolente; sarò fedele colla grazia di Gesù Cristo, e finché avrò vita non cesserò di pubblicare le sue lodi e detestare le vostre superstizioni. Soffriva intanto Romano quella carnificina, non solo con pazienza, ma con allegrezza; per la qual cosa Asclepiade ardea di sdegno, e procurava di obbligarlo a tacere, ora stendendo le mani verso i carnefici per animarli ad incrudelire, ed ora trasportato dall'ira alzandosi dalla sedia per intimorirlo. Indi cominciò a parlare in difesa de' suoi numi, ai quali diceva, dover Roma l'acquisto dell'imperio; e che egli dovea supplicare gli dei per la salute degli imperatori, ed a castigare esso ribelle col sangue. Rispose Romano che esso non potea fare miglior preghiera per li principi e per li soldati se non che tutti abbracciassero la fede di Gesù Cristo, e che egli non avrebbe mai ubbidito all'imperatore, se avesse seguito a perseguitare i cristiani.

Asclepiade irritato specialmente da queste ultime parole ordinò che il martire fosse posto all'eculeo, e che gli fossero con unghie di ferro solcati i fianchi e il petto sino alle ossa ed alle viscere, per quelle audaci parole contro del principe. Ma perché il santo seguiva a burlarsi di quelle pene, ed incoraggiava gli astanti a non far conto di tutto quel che perisce, il prefetto comandò a' ministri che colle stesse unghie di ferro gli lacerassero la bocca e le guance. Ma di ciò il santo lo ringraziò dicendo che così in luogo di una aveagli fatte aprire più bocche a celebrar le lodi di Cristo. Il giudice più infuriato minacciò di farlo bruciare vivo, chiamandolo ostinato in voler preferire all'antica la nuova religione di Cristo morto su d'una croce. Ma da ciò Romano prese a celebrar le glorie della croce, spiegando i santi misteri che la croce conteneva; e conchiuse che mentre esso Asclepiade non intendea tali misteri, gliene esibiva una facile prova. Si faccia qui venire, disse, un fanciullo di pochi anni, e s'intenda da lui quale religione debba seguirsi, se quella di più dei, o quella che adora un solo Dio. Il prefetto accettò il partito: si fece venire un bambino tolto quasi poc'anzi dal latte; Romano l'interrogò: Bambino mio, qual è la strada migliore? venerar Gesù Cristo, o pure più dei? Il bambino rispose che il vero Dio non poteva esser che uno, e che il credere più dei non potea concepirsi. A tal risposta restò confuso il tiranno; onde non sapendo che dire, si voltò al fanciullo e gli disse: Chi ti ha insegnate queste cose? Rispose quegli: Mia madre, ed a mia madre Dio. Allora Asclepiade ebbe la crudeltà di far togliere a forza il bambino dalle mani di sua madre, e lo fece battere sì crudelmente, che questi gli restò tutto macerato e sparso di sangue, e dopo ciò gli fece troncare la testa. La chiesa celebra a' 18. di novembre la festa di questo fanciullo martire, nominato Barula, che restò battezzato nel proprio sangue. La buona madre, ch'era già cristiana, avendo intesa la sentenza data contro del figlio, lo portò ella stessa al luogo del supplicio, e, dandolo al carnefice senza piangere, lo baciò, e gli disse che si ricordasse di lei nel cielo, e poi stese la sua veste per ricever quella sacra testa, e se la portò in sua casa come preziosa reliquia.

Asclepiade inumano, invece di restar commosso dal miracolo che fece stupir tutti gli astanti, ne divenne più furioso e crudele. Fece metter di nuovo s. Romano, che chiamava autore di tanti mali, alla tortura, ed ivi lo fece più acerbamente straziare, sino a fargli strappare i miseri avanzi delle sue carni. Ma il santo insultava la debolezza de' carnefici, dicendo che non aveano saputo privarlo di vita. Il prefetto, udito ciò, disse: Giacché desideri di finirla, via, sia soddisfatto il tuo desiderio; sarai presto consumato dal fuoco e ridotto in cenere. E s. Romano, mentre i ministri lo conducevano, voltato al giudice gli disse: Perfido! appello al mio Cristo da questa tua crudel sentenza. Disse ciò, affinché il tiranno intendesse che un giorno di tutto dovea renderne conto al giudice supremo. Ma allora Asclepiade dettò la final sentenza, colla quale condannò il martire alle fiamme.

Frattanto essendo stato già apparecchiato nel campo per s. Romano il rogo sul quale avea da esser bruciato, mentre i carnefici il legavano al palo, disse il santo che sapea non essergli destinato da Dio quel genere di martirio, e che restava ad ammirarsi un altro gran miracolo. E così fu; poiché subito copertosi il cielo di nuvole, cominciò a scaricare un gran diluvio; perloché i carnefici, per quanto fecero, non poterono fare arder le legna, quantunque le avessero asperse di olio e di pece. Ciò fu motivo d'un gran romore nel popolo; onde il fatto fu riportato all'imperatore, e mentre si attendea la risposta, il santo burlandosi de' ministri dimandava: Dov'è il fuoco? L'imperatore inclinava allora a liberare un uomo che vedea così protetto dal cielo; ma Asclepiade ne lo distolse; anzi ne ottenne che al santo fosse tagliata quella lingua, che tante volte avea bestemmiati gli dei. Onde tornato al foro, e fattosi venir Romano, ordinò ad un cerusico chiamato Aristone che gli avesse strappata la lingua: e ciò fu subito eseguito; poiché avendo il santo con prontezza presentata la lingua, quella gli fu svelta sin dalla radice, onde gli scorse dalla bocca un rivo di sangue sulla barba e sul petto. Fu nuovo prodigio che Romano vivesse dopo quella barbara esecuzione: ma il prodigio maggiore fu che il medesimo seguisse a parlare. Eusebio scrive esservi restate a suo tempo molte persone che furono presenti a questo miracolo.

Asclepiade, non contento di quanto avea fatto, volle di nuovo tentare la costanza del santo, e fece preparare un altare col fuoco ed incenso e con certe carni di animali, e fatto venire Romano, l'esortò a sacrificare, e poi gli disse per deriderlo che gli dava licenza di parlare. Ma allora il santo alzò la voce, e rispose che non dovea maravigliarsi, se non mancavano mai le parole a chi predicava Gesù Cristo, a cui erano soggette le leggi della natura; e perciò gli era da esso donata la facoltà di parlar senza lingua. Il tiranno a quel nuovo prodigio non sapea che opporre, dimostrò sospettare d'essere stato burlato dal cerusico; ma quegli disse per discolparsi che si visitasse la bocca del santo, e quella fu in verità ritrovata senza lingua; e per maggior prova del miracolo, essendosi fatta recidere allora la lingua ad un reo già condannato a morte, quegli subito spirò.

S. Romano fu ricondotto in prigione, ove fu tenuto più mesi, e colà non lasciò di seguire a predicare le glorie di Gesù Cristo. Anzi dove prima era alquanto balbuziente, indi seguiva a parlare con tutta la speditezza. Essendo poi giunta la solennità de' vicennali di Diocleziano, fu donata a tutti i carcerati la libertà, fuorché a s. Romano, il quale nella stessa carcere, ov'era steso co' piedi nel nervo sino al quinto pertugio, fu strangolato, e andò a ricevere in cielo il premio di tanti suoi strazj a' 17. di novembre dell'anno 303. S. Gio. Grisostomo ed altri padri han celebrata con molte lodi la memoria del suo glorioso martirio.




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